Il Baciamano di Afragola dei lazzari infelici

by Amerigo Ciervo
Il Baciamano di Afragola dei lazzari infelici

Il “baciamano di Afragola”, con annessa fotografia con il volto del devoto fedele salviniano prudentemente sfumato,  continua ad agitare il dibattito sui social.

Le reazioni sono sostanzialmente due. Per la prima, siamo di fronte a un’immagine che “disturba” profondamente la coscienza democratica di chi si sente progressista. Altri, viceversa, ne sottolineano la grande novità, esaltando la grande avanzata della Lega salviniana. E, magari, si preparano a saltare sul carro del vincitore, almeno a sentire i sondaggi.

Poi c’è chi, al solito, ritiene di doversi distaccare da entrambe le posizioni e, mostrando un apparente “aplomb” da “scienziato della politica”, auspica la comprensione delle motivazioni di un gesto simile. In realtà, l’atto di devozione di un afragolese nei confronti del politico italiano più sugli scudi in questi ultimi tempi, si comprenderebbe benissimo e non dovrebbe scandalizzare più di tanto solo se si conoscesse un po’ di “storia patria napolitana” e, all’interno di essa, cosa siano e cosa abbiano rappresentato i celeberrimi lazzari.

Per  Croce, il termine lazzaro si collegherebbe allo spagnolo laceria  e al latino lacerus, ossia lacero, strappato.

Con “laceria” si intendeva sia la lebbra che la miseria, per cui lazzaro  significherebbe pobre andrajoso, ossia un pezzente cencioso. E’ chiaro che, al di là delle ricostruzioni etimologiche, superate dagli scintillii della modernità, ciò che più ci riguarda sia la “visione del mondo” dei “lazzari”,  come essa si sia evoluta e se, ancora oggi, essa rappresenti un elemento adeguato per comprendere talune scelte. Questo aspetto si dovrebbe approfondire.

I  lazzari erano i giovani dei ceti popolari che nella Napoli dal XVII secolo in poi, riuscivano a sopravvivere in un contesto generale di miseria, senza doversi preoccupare eccessivamente di procurarsi cibo e vestiti. Senza una occupazione fissa e, spesso, senza neppure una  fissa dimora, si adattavano a svolgere una qualsiasi, occasionale  occupazione, non raramente compivano piccoli furti, imbrogli o, molto più spesso, mendicando.

Nel secondo atto de L’opera buffa del giovedì santo, (1980) Roberto De Simone ne tratteggia un mirabile ritratto con la fisicità e la voce di un fenomenale Peppe Barra.

Sembra poi che i “lazzaroni”, tra di loro, fossero strutturati in forme gerarchiche e che il loro capo trovasse addirittura riconoscimento e udienza anche presso la corte.

Le vicende della rivoluzione napoletana del 1799, da questo punto di vista, a studiarle con attenzione – e la ricorrenza del 220° anniversario potrebbe offrircene l’occasione – possono, in questa direzione, aiutarci a comprendere molte cose.

I lazzari si batterono furiosamente, per tre giorni, il 21, 22 e 23 gennaio 1799, in difesa della città e di Ferdinando IV, “Tata Maccarone che rispetta la religione.”

Le forze francesi, ovviamente soverchianti, travolsero le difese borboniche e instaurarono la repubblica giacobina.

Ma, successivamente, alleatisi con le truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo, i lazzari riconquistarono Napoli tra il giugno e il luglio dello stesso anno, ponendo termine all’esperienza politica della Repubblica napoletana e creando le condizioni per la mattanza borbonica che distrusse i gruppi intellettuali più prestigiosi della città. Il 1799 rappresenta uno dei discrimini fondamentali della storia del Mezzogiorno d’Italia, con una lunga serie di errori che Vincenzo Cuoco evidenzia con spietata lucidità.

“La nostra rivoluzione essendo una rivoluzione passiva, l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo. Ma le vedute de’ patrioti e quelle del popolo non erano le stesse: essi aveano diverse idee, diversi costumi e finanche due lingue diverse.”

E, più avanti, “siccome la parte colta si era formata sopra modelli stranieri, così la sua coltura era diversa da quella di cui abbisognava la nazione intera, e che potea sperarsi solamente dallo sviluppo delle nostre facoltá. Alcuni erano divenuti francesi, altri inglesi; e coloro che erano rimasti napolitani e che componevano il massimo numero, erano ancora incolti.”

E, infine, “Cosí la coltura di pochi non avea giovato alla nazione intera; e questa, a vicenda, quasi disprezzava una coltura che non l’era utile e che non intendeva.”

Dunque la “cultura dei pochi” non riuscì a trasformare i destini di tutti. E per cultura dei pochi, non occorre intendere esclusivamente la cultura degli intellettuali.

La cultura va intesa nell’accezione più ampia: politica, corpi intermedi, associazioni e centri culturali inclusi.

L’ex bracciante Giuseppe Di Vittorio comprese che ciò che andava, prima di ogni cosa, sconfitto era l’analfabetismo e che tutte le  lotte per i diritti dovevano collegarsi a una battaglia culturale contro l’ignoranza e le visioni del mondo sbagliate: “Non dovete togliervi più il cappello di fronte al padrone, perché siete uguali agli altri”.

Oggi chi insegnerà ai “lazzari infelici” dei nostri tempi che ai politici bisogna chiedere conto e non baciare la mano?  (e meno che mai a chi, qualche anno fa, ha paragonato il tuo odore a quello dei cani). La scuola meno inclusiva della storia della Repubblica? I partiti politici scomparsi o diventati meri comitati d’affari? Le associazioni chiuse, come monadi, nelle loro pur encomiabili attività? Ci sarebbe molto da fare, in questo nostro paese. E FB, da solo, non basta.

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