CRISI LIBICA. L’AVANZATA DI HAFTAR ED IL RISCHIO DI UNA GUERRA CIVILE. DITE AL CAPITANO SALVINI CHE LA LIBIA NON E’ UN PORTO SICURO NEANCHE PER L’ITALIA.

by Valentina Spata

Mi sembra il caso di avvertire il “Capitano” Salvini che in Libia si è scatenata la più forte delle tempeste mettendo a rischio anche i numerosi interessi dell’Italia, oltre alla vita di numerosi esseri umani.  

Sono preoccupato per gli scontri armati, gli aerei e le truppe in campo, ma non lo sono sul tema immigrazione: l’Italia difende i suoi confini via terra e via mare“, ha dichiarato il Vice Premier Matteo Salvini in occasione di una intervista al Vinitaly.

Premesso che se la crisi libica dovesse sfociare in una guerra civile, l’Italia si ritroverebbe ad affrontare un’altra ondata di flussi migratori, qualcuno dovrebbe spiegare al Ministro della paura che gli scontri armati, gli aerei che lanciano missili e le truppe che sparano, uccidono le persone e anche i migranti intrappolati in Libia.

Si tratta di persone e non di merce elettorale. Comprendo che la sua preoccupazione è rivolta agli interessi petroliferi dell’Italia in Libia ma difendere i confini da chi fugge dalla guerra, quindi chiudere i porti, è una violazione di tutti i trattati internazionali compresi quelli a tutela dei diritti umani. Aiutarli a casa loro sfruttando le loro risorse petrolifere non è proprio un gesto di buon senso soprattutto se alle stesse persone poi si vieta di sbarcare nelle nostre coste.

Mentre la Turchia e gli Usa, Stati membri, si scontrano in Siria per i curdi (La Turchia li perseguita, gli Usa provano a difenderli), in Libia si apre l’ennesima crisi che sfocia in una pericolosa avanzata da parte del generale Khalifa Haftar che vuole conquistare Tripoli facendo fuori l’inutile governo di Al Fayez Sarray, fortemente voluto dalla Comunità occidentale.

Che il generale Haftar fosse sul piede di guerra era sotto gli occhi di tutti.

Sappiamo già che con la caduta di Gheddafi la Libia si è trovata, e lo si trova ancora, a far fronte a diverse sfide, in primis quella del contrasto al terrorismo seguita da quella della stabilizzazione del paese. Entrambe queste sfide rappresentano per l’Europa diversi problemi irrisolti che condizionano pesantemente l’andamento delle relazioni tra i paesi membri e la Libia.

L’Italia, ancora una volta, sulla questione libica è stata colta di sorpresa. Come accadde nel 2011 quando Francia, Stati Uniti e Gran Bretagna decisero di far fuori il Colonnello Gheddafi. Poi si accordò ai raid della Nato bombardando quello che era il nostro maggiore alleato nel Mediterraneo con la promessa che il nostro Paese avrebbe avuto in cambio “una cabina di regia” sulla Libia che in realtà nessuno ci ha mai dato.

Se Sarray dovesse cadere, come penso che prima o poi avvenga, per l’Italia e tutta l’Unione europea si configura una sconfitta sia dal punto di vista politico che economico.

L’Italia, prima con i governi Renzi/Gentiloni, adesso ancor peggio con il Governo giallo verde, ha puntato tutto su un “governo” libico – se così si può definire- fallito sin dalla sua nascita.

Il Governo Sarraj avrebbe dovuto portare stabilità in un Paese che vive il caos, ma non ha mai avuto la capacità di mediazione tra le varie milizie che si contendono la Libia e che mai lo hanno riconosciuto.

D’altronde cosa potevamo aspettarci? L’occidente pensa di risolvere le lotte interne dei paesi africani provando ad esportare la propria democrazia senza tenere conto delle differenze culturali e sistemiche presenti nel continente africano. Non tenendo conto neanche del bene del popolo di questo grande continente ma solo dei propri interessi economici.

Il risultato è quello che abbiamo visto in Siria e quello che stiamo vedendo in Libia: un grande caos, conseguenza proprio dell’intervento approssimato di diversi paesi occidentali e arabi.

La crisi politica della Libia, che persiste da tempo, prima o poi doveva sfociare in una guerra ancora più destabilizzante. Era assolutamente prevedibile.

Se pensiamo all’accordo firmato a Skhirat, in Marocco, per tentare di stabilizzare la Libia, ci rendiamo conto quanto siano stati fallimentari gli interventi della Comunità internazionale.

Quell’accordo sostenuto dall’Onu e dai paesi occidentali è stato firmato dai due governi rivali, quello insediatosi a est e quello insediatosi a ovest della Libia, per fermare le continue lotte interne tra le varie milizie. Si pensava che i due governi libici potessero finalmente collaborare anche per sconfiggere lo Stato Islamico che nel frattempo si era insediato nella fascia costiera del Paese. In quella occasione l’Onu e l’occidente decisero di mettere a capo del nuovo governo di unità nazionale Fayez Al Sarray, uno sconosciuto che non aveva nessuna presa politica e militare sul territorio.

Il primo fallimento dell’accordo si è avuto quando il Parlamento insediatosi nell’est del paese non ha riconosciuto l’autorità di Sarraj. Che poi di autorità, bisogna dirlo, non ne ha mai avuta.

Al Sarraj è riuscito ad insediarsi a Tripoli dopo alcuni mesi, precisamente a marzo del 2016, a causa appunto dell’opposizione di alcune milizie. Nel frattempo alcuni esponenti del governo e del parlamento di Tripoli, che durante l’accordo avevano sostenuto il governo di Sarraj, hanno tentato un colpo di Stato.

Un capo politico che non viene riconosciuto non solo dalle varie milizie e dall’altro governo ma anche da coloro che fanno parte del suo stesso governo. Un fallimento che porta la firma di tutti i paesi della Comunità occidentale.

Il tutto sottovalutando l’avversario più potente del Governo di Sarraj, ovvero il generale Khalifa Haftar, un americano ex comandante dell’esercito di Mu’ammar Gheddafi, che controlla buona parte del territorio orientale della Libia e che ha rifiutato l’accordo di Skhirat.

Il generale Haftar, dal settembre del 2016, controlla le principali infrastrutture petrolifere del paese che si trovano nella cosiddetta “Mezzaluna del petrolio” tra Sirte e Bengasi.

E’ opportuno ricordare che Haftar ha conquistato tutte queste infrastrutture cacciando una milizia alleata del governo di Sarraj, tanto per sottolineare ancora una volta l’incapacità del governo fortemente voluto dall’Onu sia a trovare un sostegno politico che a creare una forza militare affidabile.

Bastava guardare cosa stava accadendo a partire dalla presa, da parte del Generale, di uno dei più importanti giacimenti di petrolio come quello di El Feel, gestito dall’Eni insieme alla compagnia petrolifera nazionale libica (NOC).

Solo adesso, che la situazione è degenerata, Salvini si preoccupa degli “italiani che lavorano con le nostre compagnie petrolifere”. Per l’Italia, soprattutto per Salvini, quando si parla della Libia l’unico argomento che emerge è quello dei flussi migratori inteso come “pericolo” per il popolo italiano. In realtà la crisi migratoria è conseguenza (non causa) della crisi libica dovuta alla instabilità del paese africano. La contraddizione dell’attuale governo italiano, e di quelli precedenti, è quella di snobbare i rapporti con Haftar e di sostenere Al Sarray che non solo è privo di una forza militare autonoma ma dipende dalle milizie, le stesse che sono responsabili del traffico di esseri umani. Inoltre, Sarray è sostenuto dai Fratelli Musulmani appoggiati a loro volta dal Qatar e dalla Turchia di Erdogan che finanziano e forniscono armi a questa organizzazione che nel mondo arabo rappresenta una delle cellule più potenti che si oppone alla secolarizzazione delle nazioni islamiche in favore di un’osservanza più ligia ai precetti del Corano, destabilizzando i regimi laici arabi. Questa cellula, è bene sapere, organizza campi a Misurata e Sabrata per addestrare estremisti provenienti dall’Africa, dall’Egitto e dalla Tunisia. Inoltre, a Sabrata gestiva il più grande campo profughi della Libia facendo partire con i barconi, fino al 2016, centinaia di migranti al giorno. Il peggior nemico dei Fratelli Musulmani è il Generale Haftar.

Di fronte a questo quadro complesso e caotico i paesi europei e gli Stati Uniti hanno sostenuto il Governo Serraj, alcuni meno di altri, per provare principalmente a tutelare i propri interessi economici e politici. Certo, c’è da dire che gli Stati Uniti hanno difficoltà a mettersi contro l’americano Haftar e che la Francia finge di tendere una mano a Serraj mentre tende l’altra alle ambizioni di Haftar.

Ad ogni modo la priorità per i paesi occidentali è sempre stata quella di sconfiggere lo Stato islamico e di fermare i flussi dei migranti senza tener conto che spesso gli interessi occidentali sono causa stessa dei conflitti africani. Su questi temi si sono da sempre basate le relazioni con la Libia senza preoccuparsi mai di trovare una soluzione al problema reale.

In tutti questi anni l’Italia ha abdicato al ruolo di guida nella risoluzione della crisi libica, troppo impegnata a fermare i flussi migratori ed annunciando una finta invasione fino a creare, di conseguenza, un sentimento di paura nel popolo italiano che di affari esteri non si interessa.

Dopo un lungo periodo di letargo, i politici italiani si sono svegliati e hanno tentato di assumere quel ruolo per trovare una soluzione prima che il Presidente Macron si faceva più risoluto nel sostegno ad Haftar spingendo affinchè le elezioni in Libia si tengano il prossimo 10 dicembre e dando il via libera alle ambizioni del generale. Il problema è che l’unico modo che avrebbe avuto l’Italia per avere un ruolo determinante nella crisi libica era il dialogo con l’altro governo, con le varie milizie presenti in tutto il territorio e con il Generale Haftar. Sono loro che controllano tutto il territorio.

La prima occasione buona per l’Italia era quella del vertice tenutosi a novembre in Sicilia che ha visto le diverse parti confrontarsi per una stabilizzazione duratura della Libia. In questa occasione il governo giallo verde ha mostrato tutta la sua incapacità nel condurre una mediazione necessaria che avrebbe potuto far diventare il nostro paese un interlocutore fondamentale ed un punto di riferimento necessario.

Eppure la “questione libica” non è una novità per l’Italia. Il nostro Paese, immerso nel Mediterraneo, ha sempre avuto tra i suoi interessi principali l’equilibrio di tutta l’area in questione.

Mentre si faceva finta di avere interlocutori affidabili in Libia, il Qatar riempiva l’Italia di dollari di commesse militari (aerei, navi ed elicotteri) e in Libia si formava e rafforzava un fronte ampio di milizie che vogliono decapitare il super favorito Sarraj nominato dalla Comunità Internazionale.

Haftar non ha mai voluto scendere a patti con il governo Sarray, confermando la sua ambizione a voler diventare l’uomo più potente del paese, come lo era Gheddafi. Nessuno può dire di non sapere e di non poter prevedere una reazione violenta come quella attuale.

Ma quali interessi ha il nostro Paese in Libia? L’Italia, che chiude i porti agli africani, da Tripoli ricava il 70 per cento dei fatturati. Il gasdotto Greenstream costato 7 miliardi di euro, ha inviato ogni anno dalla Libia all’Italia circa 8 miliardi di metri cubo di metano. L’Eni, che dopo l’avanzata di Haftar in queste ore è dovuta fuggire a gambe levate dalla Libia, ha avuto un ruolo fondamentale nei negoziati per la realizzazione del gasdotto. Motivo per cui ci troviamo a sostenere il Governo Sarray, appoggiato anche dal Qatar, dalla Turchia di Erdogan e dai fratelli musulmani che, come testimoniato da molti migranti arrivati nelle nostre coste, rappresentano un pezzo della “mafia” libica.

E mentre la Comunità occidentale insiste sul governo di Sarraj e con l’accordo di Skhirat, l’avanzata di Haftar diventa più pericolosa: grazie alle forze della tribù di Farjani, il Generale si avvicina alle porte della capitale. A dare l’annuncio l’emittente Al Arabiva su twitter.

Nel frattempo le Nazioni Unite, provando a salvare il salvabile, inviano in Libia il loro generale Antonio Guterres che ha dimostrato di non avere la più pallida idea di come affrontare questa nuova crisi libica. Crede che per fermare l’avanzata del pericoloso generale della Cirenaica sia necessario un percorso di pace e stabilità di tutto il territorio libico. In che modo e con chi non è dato sapersi, forse perché fino ad oggi le Nazioni Unite non hanno saputo gestire la crisi libica che in queste ore sta facendo tremare i potenti del mondo.

A parte i numerosi appelli di tregua e di pace da parte della Comunità Internazionale, gli unici ad avere una chance per fermare l’offensiva di Haftar sono le forze di Misurata, terza maggiore città della Libia dopo Tripoli e Bengasi, che contano circa 240 milizie e circa 50.000 uomini e le milizie di Zintan, le stesse che tengono prigionieri i migranti in alcuni dei lager dell’orrore e a cui il Governo Sarraj si è appoggiato.

Il rapporto tra le milizie di Misurata e Haftar, non si sa per quale motivo, si sono interrotti bruscamente a poche ore dall’avanzata del Generale, indi per cui la stragrande maggioranza delle milizie ha deciso di aiutare il governo di Sarraj. Una fortuna per Sarraj e la comunità occidentale che si è fatta trovare impreparata di fronte alla minaccia di una guerra civile pericolosa.

Le milizie di Misurate si muovono verso Tripoli per rafforzare la controffensiva con l’arrivo di 350 mezzi militari, quelli di Zintan si muovono verso Jufra dove dall’aeroporto partono i caccia di Haftar. Le brigate di Misurata, in particolare la 166, avrebbero ripreso la linea di Ciosta e rotto l’assedio di Zawiya.

E’ stato ripreso anche l’aeroporto di Tripoli, quello dismesso nel 2014 e che era stato indicato come (finta) sede della centrale operativa per il coordinamento delle operazione di salvataggio dei migranti e che invece era stato preso più volte da uomini dell’esercito nazionale libico del generale Haftar. Questo per dire ancora una volta che in Libia non è mai esistita una centrale che coordinava le cosiddette operazioni di salvataggio dei migranti che dovevano avvenire con quella che definiscono “Guardia Costiera libica” per mezzo delle imbarcazioni fornite dall’Italia.

Mentre infuria la battaglia via terra tra le truppe del generale e le milizie a sostegno di Sarraj, volano razzi su Tripoli spingendo anche il contingente americano ad andarsene da Palm City, compound residenziale a pochi chilometri dalla capitale.

Le istituzioni europee, che guardano con grande preoccupazione all’evolversi della situazione libica, si sono trovate prive di strumenti idonei per esercitare un ruolo incisivo e funzionale a ridurre le tensioni e da sempre sono state prive di una visione e di una azione completa per affrontare la crisi libica.
Intanto, se non si trova una immediata soluzione, le conseguenze del conflitto libico per l’Italia sono enormi.

La Libia sull’orlo di un conflitto lungo e logorante, con il ruolo decisivo delle milizie pronte a vendersi al migliore offerente, provocherebbe per l’Italia un’emergenza anche in termini di sicurezza. Stiamo parlando di una guerra che nasce alle porte di casa nostra e che potrebbe sconvolgere tutta l’area del Mediterraneo. Questo conflitto potrebbe favorire un maggior numero di partenze dalle coste libiche di Richiedenti Asilo, considerato che stiamo parlando di un Paese in guerra. Ma il rischio peggiore, a mio avviso, potrebbe essere quello del ritorno, in una Libia non governata, dei foreign fighters che fuggono dalla Siria.
C’è anche il rischio economico. Se il conflitto si dovesse diffondere in tutto il territorio, il gasdotto Greenstream, che collega Mellitah e Gela (Sicilia), è a rischio. Ebbene ricordare che l’interscambio tra Italia e Libia vale oggi 4 miliardi di euro, soprattutto per importazioni di gas e petrolio.

Non esiste alcuna soluzione sostenibile all’emergenza migratoria e al radicamento del terrorismo di matrice islamica nel paese senza una politica europea che affronta la crisi politica-istituzionale della Libia. Se si risolve la crisi politica libica si pongono senza dubbio le basi per poter risolvere le altre due problematiche. Chi pensa di risolvere questa incresciosa situazione chiudendo i porti o con azioni militari, non comprende che la crisi libica si rafforzerebbe e si indebolirebbero gli interventi di tutta la Comunità internazionale. Fino ad ora, tutta l’Unione europea si è mostrata incapace di comprendere che per raggiungere l’obiettivo comune, quindi la stabilizzazione della Libia, bisogna andare oltre ai propri confini ponendo l’attenzione sul conflitto tra le parti, che sta dilaniando la Libia, attraverso un processo negoziale efficace. Non c’è bisogno di un nuovo intervento armato occidentale deciso sulla scia della paura fomentata dai partiti di estrema destra. C’è bisogno di coraggio e di un piano strategico che coinvolge tutti attraverso negoziati concreti.

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