Il linguaggio della violenza

by Barbara Carsana

Il 28 maggio scorso, con indignazione quasi corale, la rete commentava a gran voce un articolo di Filippo Facci, comparso sul quotidiano Libero, il giorno precedente.

Il giornalista, con esposizione narrativa provocatoria, stigmatizzava l’esito di  una sentenza dello Stato della Georgia in cui si riconosceva un risarcimento di un miliardo di dollari ad Hope Cheston, una giovane americana, violentata all’età di quattordici anni da una guardia giurata ventottenne, Brandon Lamar Zachary.

Detta somma suscitava  vivi disappunto e sdegno dell’articolista, il quale nel suo articolo riportava testualmente “Chi se ne frega se ci additeranno per cattivo gusto o se diranno che noi uomini (ma anche tante donne, crediamo) non possiamo capire cosa sia uno stupro: ma subirne uno in cambio di un miliardo di dollari (un-miliardo-di-dollari) come dire, se ne può perlomeno parlare”…”

“Per quella cifra – a vent’anni – è lecito chiedersi quanti si farebbero derubare l’infanzia non una, ma anche due, tre volte. Siamo cinici? Può darsi, ma l’alternativa è vederla solo come una povera ventenne sfortunata per un brutto incidente avvenuto otto anni fa: e non possiamo farcela.”

“Forse non è un risarcimento è un simbolo, un emblema di quest’epoca in cui gli statunitensi stanno ricalibrando la borsa valori (morali) e decidendo che molestie, prevaricazioni uomo-donna, stupri e mezzi stupri siano la nuova e invalicabile linea Maginot”

L’articolo infarciva poi, con dovizia di avverbi e aggettivi, la neanche velata idea che la somma (posta a carico del datore di lavoro dello stupratore) fosse del tutto spropositata per quello che altro non era stato se non “un brutto incidente”.

La rete si scatenava rabbiosa dividendosi in una netta, quella sì davvero insormontabile, trincea di confine.

Da un lato chi plaudiva sonoramente al risarcimento del danno (di fatto, peraltro, non riscuotibile per incapienza del condannato), comunque considerandolo troppo contenuto; dall’altro lato chi lo reputava, nella sua quantificazione, assolutamente spropositato paventando la possibilità che detto verdetto aprisse le porte a possibili nuove fonti di arricchimento.

Analogo social-polverone, divisivo e fortemente polarizzato, si sollevava il 17 luglio scorso, per le argomentazioni  giuridiche molto più ponderate e misurate della Terza Sezione Penale della Cassazione.

Una giovane donna, ubriacatasi volontariamente per sua stessa ammissione, veniva stuprata dai due uomini con cui aveva consumato la cena.

Cio’ che suscitava un’ondata schiumante di risentimento, era il mancato riconoscimento dello stato di ebbrezza della donna quale elemento grave ed aggravante di una già presunta inferiorità, che, nella pubblica vulgata, era di per sé meritevole di considerazione giuridica attraverso un’ aggravante specifica ulteriore al put riconosciuto reato di violenza sessuale di gruppo ex art. 609 octies del codice penale.

Nel testo della sentenza, non veniva riconosciuta l’aggravante  indicata, perché l’abuso della sostanza alcolica non era stato determinato dagli stupratori in maniera funzionale all’esercizio della violenza, bensì l’ebrezza era il frutto di una scelta volontaria da parte della vittima, la quale, conseguentemente, non era più in grado di esercitare liberamente il consenso, configurandosi così lo stupro di gruppo.

Da qui un’altra linea Maginot nel dibattito pubblico: accuse di medioevo giuridico e di un ritorno al passato da un lato e strenua difesa del verdetto nostrano con stretto richiamo alla formulazione delle norme penali dall’altro.

Sono passati poco più di due mesi dalla sentenza americana e all’incirca un mese da quella italiana, ma nell’era della social-verità, o post-verità, l’immediatezza della narrazione del fatto e l’accesso indiscriminato a fonti più o meno attendibili, richiede un pari immediato sdegno o una subitanea adesione identificativa di schieramenti prontamente riconoscibili.

Ciò farebbe sembrare superata ogni riflessione più meditata e vorrebbe il dibattito irrimediabilmente chiuso, ma commentare, oggi, due casi così distanti tra loro e di ben due mesi addietro, non è solo un esercizio di stile.

Chiedersi, infatti, cosa resti ma, soprattutto, cosa non resti di queste indignazioni, domandarsi se abbiano qualcosa in comune le due sentenze nel dibattito pubblico, interrogarsi sul perché il piano narrativo di un articolo di giornale e di una sentenza di Cassazione, così lontani per argomentazioni e linguaggi, siano parificati a livello mediatico, e anche nei commenti di parte del mondo femminista, può risultare ancora utile.

Di queste indignazioni appare subito evidente cio’ che è mancato rispetto a ciò che si è detto: le linee argomentative dei due schieramenti hanno solo esibito il petto, ma non hanno mai incrociato le penne dando vita a un costrutto narrativo nuovo.

Il dibattito si è solo ulteriormente polarizzato e non  ha creato possibili alternative terze vie, ma ha lasciato sul campo, unicamente vittime illustri.

In un sistema penale, tanto nostro quanto quello americano, di una società classista e sessista, il contestare il sistema potere rispetto alla libertà sessuale delle donne è una battaglia che sul piano del diritto si gioca da tempo immemore,  ma le sue vittorie sono senza dubbio molto più recenti e dunque ancora da metabolizzare come acquisizioni raggiunte.

Questo elemento le rende ancora soggette alla necessità di ridefinirne i confini di legittimazione, senza che sulle stesse si possa invece lavorare nel merito dei contenuti.

E’ appena il caso di ricordare la sentenza della Corte Costituzionale  n. 561 del 1987 che inserì sotto l’egida dell’art. 2 la libera determinazione sessuale delle donne.

Al punto n. 2 delle considerazioni in diritto, la Consulta affermava che

La violenza carnale costituisce invero, nell’ordinamento giuridico penale, la più grave violazione del fondamentale diritto alla libertà sessuale. Essendo la sessualità uno degli essenziali modi di espressione della persona umana, il diritto di disporre liberamente è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art. 2 Cost. impone di garantire.

Questo, fu forse il punto più alto del riconoscimento giuspositivo della libertà femminile, ma, si osservi, occorre aspettare ancora 9 anni perché si decretasse per legge la centralità del reato sessuale come reato contro la persona, e altri anni ancora passarono perché la questione “violenza sessuale” trovasse un conforto normativo più degno del riconoscimento della libertà sessuale.

Questo difficile arrancare del concetto di libertà sessuale come diritto soggettivo, in una società, oltreché in un diritto, anch’essa marcatamente sessista, nel commento pubblico dei due casi citati ha lasciato sul campo non solo ogni considerazione sul rango e sul merito del diritto leso, ma anche, concentrandosi, quasi esclusivamente sugli strumenti a sua difesa, poiché la violenza sessuale è definita in ragione di una sopraffazione e non come diritto in sé,  ne ha omesso il senso.

Poco o nulla, nel dibattito che è seguito alle sentenze americana e italiana, si è detto su cosa significhi libertà sessuale tra corpi in relazione tra loro.

Non si è colta l’occasione per poter rivedere la definizione giuridica del reato di violenza sessuale.

Il delitto in questione è figlio di un’epoca che ne ha visto sì l’inserimento tra i delitti contro la libertà personale,  ma risente fortemente dell’avere come padri concettuali gli atti di libidine violenti e la violenza carnale, reati che erano costruiti non tenendo minimamente in considerazione alcuna riflessione sul consenso e soprattutto alcuna possibilità di evoluzione dell’emancipazione femminile.

Se dal punto di vista dell’inquadramento, infatti, dal 1996 in poi inizia prepotentemente a farsi strada una concezione a livello sociale della sessualità della donna, concepita, in omaggio al principio costituzionale come una manifestazione della libertà della persona, non v’è però un pari fervente dibattito su quali siano gli orizzonti di questa libertà di due corpi in relazione sessuale nella definizione di reato di violenza sessuale.

Se in ossequio a questo vuoto, mentre tutta la bagarre argomentativa si è concentrata sulle sanzioni del caso italiano e di quello americano, nulla è stato detto per riempire di contenuto il diritto soggettivo, e per inquadrare la percezione del significato della libertà alla cui tutela le sanzioni stesse sono poste.

Il concetto di libertà sessuale viene inteso generalmente in due diverse accezioni: l’una in  senso positivo, l’altra in senso negativo. Nella prima essa ha il significato di diritto a non subire la prevaricazione sessuale altrui, la cosiddetta libertà da, nella seconda è invece intesa come libertà di. Libertà di disporre, libertà di scegliere, libertà di manifestare le proprie preferenze, prima e durante l’atto sessuale.

Se questo è dato per pacifico, non parimenti serenamente si ricorda che, costruendo il reato a partire dalla limitazione, dalla costrizione, dalla coercizione di quella libertà, si ottiene un diritto definito sotto condizione, nella sua limitazione frutto di violenza e di minaccia.

La definizione del reato quindi perde il contenuto di quella libertà, la definizione degli orizzonti del consenso su cui si deve fondare quella libertà. Questo fa sì che resista l’idea sottesa che si debba sempre dimostrare una opposizione al rapporto sessuale ( il c.d. “ onere di resistenza”   (COLLI 1997, 1163 ss.).

Di contro ove si assumesse la tutela della libertà sessuale per come definita giurisprudenzialmente nel 1987, come diritto soggettivo assoluto, la tutela del consenso libero, scevra da coercizioni violente o minacciose, potrebbe essere l’oggetto centrale di ogni dibattito che abbia ad oggetto una sua violazione.

Cosa che in altri paesi sta proprio in questi mesi avvenendo.

Concentrandosi solo sulla quantificazione della sanzione, sul riconoscimento delle aggravanti, come se esse fossero l’unico ago della bilancia del valore del diritto tutelato, nella valutazione del danno conseguente, si perde  una buona occasione per dare un contenuto vero, anche nel percepito pubblico, del diritto soggettivo.

Ma anche altre sono le vittime abbandonate sul campo.

La canalizzazione del discorso sulla sola sanzione elimina poi dalla scena anche il protagonismo della persona offesa. Nella narrazione costei viene esclusa pregiudizialmente dal poter aver assunto volontariamente alcolici (nonostante questo sia un fatto acquisito).

E’ come se, il dibattito, ove sostenesse liberamente che la vittima si era posta in condizioni di ubriachezza (con cio’ operando una lettura vittimizzante della donna) ne contribuisse a giustificarne lo stupro, ne avvalorasse il mancato riconoscimento dell’aggravante, o determinasse il mancato riconoscimento della stessa come uno sconto di pena, quando non addirittura, un giudizio sulla compartecipazione al reato.

Al contempo, l’identificazione di un risarcimento dalle somme mirabolanti (si badi in un sistema giuridico diverso dal nostro, i cui meccanismi di responsabilità degli attori coinvolti non sono gli stessi che regolamentano il nostro sistema, ma questo nella narrazione non è emerso con nessuna forza), sposta l’attenzione dal contenuto da attribuirsi  al diritto di autodeterminarsi sessualmente  in maniera libera, alla concorrenza con i principi sovraordinati in gioco: primo tra tutti il garantismo penale.

Che poi infine, un articolo di giornale e una sentenza di Cassazione meritino la medesima gogna mediatica, è forse segno di una confusione che il mezzo di comunicazione sociale permette su tutti gli argomenti che suscitano reazioni a partire dal titolo, capace di per sé solo di avvelenare il dibattito.

E questo non fa onore, né, tantomeno è di utilità ad una sempre sotto attacco emancipazione del corpo delle donne.

Come non fa onore che nessuno si sia preso la briga di verificare che, sullo stesso quotidiano in cui scrive Filippo Facci, quel 27 maggio 2018, compariva in prima pagina (proprio accanto alle incriminanti parole del giornalista), un altro articolo a firma  di Simona Bertuzzi, di segno radicalmente opposto rispetto al commento sul caso americano.

Si intitolava “E’ un messaggio forte contro tutte le violenze, Sbagliato indignarsi, ne avevano bisogno”.

E noi quel contenuto ce lo siamo perso, ed è stato un peccato.

Perché quello che scrive la giornalista sul risarcimento miliardario “ E’ un grido, E’ un calcio nel culo. E’ una rivincita solenne, dovuta e desiderata”.

Ma in tutto questo gridare, questa voce ce la siamo persa.

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