L’abbeccedario del sempiterno ministro dell’Inferno

by Amerigo Ciervo

Avevo scritto un altro  articolo. Completamente diverso. Iniziava così: Avremmo bisogno di fermarci un attimo e ritrovare il gusto della riflessione, ma di una riflessione che si prenda tutto il tempo necessario.

Occorre molto tempo, infatti, per guardare all’interno delle cose o dentro di noi. “Intra” e  “spectare”, “dentro” e “guardare”,  formano, insieme,  la parola introspezione. Che non è cosa che si possa fare in quattro e quattr’otto.

Anzi. E’ proprio l’esatto contrario della velocità dei nostri contatti.  E per tale esigenza, mettevo in fila una serie di fatti avvenuti nel lasso di tempo dentro quella curiosissima congiunzione stabilita dal calendario tra la Pasqua e il 25 aprile: la terribile strage che l’ISIS s’è subito intestata; la  foto del ministro dell’Intermo che imbraccia  un mitra, “pronto a usarlo” contro i nemici della Lega, per “legittima difesa”;  i tifosi di una squadra romana che, a Milano, a pochi passi da piazzale Loreto, srotolano uno striscione in onore di un dittatore responsabile della morte di centinaia di migliaia di persone; la RAI, ahimè, dell’Emilia-Romagna che manda “serenamente” in onda un lungo servizio con una serie di interviste il cui denominatore comune è qualcosa di illegale, ossia l’apologia del fascismo; di nuovo il  ministro dell’Interno che rivede i conti sui migranti e ci dice che non sono più 500.000, come più volte annunziato in campagna elettorale, ma “solo” 90.000.

Poi prendevo atto come non  si fosse esaurita, con il 25 aprile,  la carta delle brodaglie disgustose che la trattoria Italia  quotidianamente ci va  propinando alla maniera di uno chef stellato: il libro del sempiterno ministro dell’Inferno pubblicato con un editore – parola grossa, ma allegramente utilizzata da tutti i media – che è possibile ritrovare in effigie, negli archivi della contemporaneità,  non intorno a un tavolo alla maniera delle riunioni del mercoledì alla casa editrice Einaudi, con Calvino e Vittorini, ma insieme a un manipolo di giovanotti impugnanti bastoni (manganelli?), e, infine,  le trucide manifestazioni romane tese ad impedire, ad una famiglia rom, la presa di possesso dell’abitazione, regolarmente spettante per graduatoria pubblica, con il corollario della oscena contestazione alla povera Virginia Raggi che, molto opportunamente, s’era recata per riaffermare, da sindaca della città,  la legalità e i diritti.

L’elenco si concludeva con la decisione necessaria di mettere il punto, per evitare di dover riaprire i termini e inserire l’ultima disumanità di giornata e di abbozzare un tentativo di riflessione per il quale avevo utilizzato un passo di Heidegger:    Il tempo della povertà –  il nostro tempo –  è diventato così povero da non essere in grado neppure di avvertire la consapevolezza  della “mancanza di Dio come mancanza.”

Poi è arrivata l’ultima notizia, quella relativa alla sospensione, con dimezzamento di stipendio, della professoressa palermitana Maria Rosa Dell’aria, rea, secondo l’Ufficio scolastico provinciale, di “omesso controllo” su un lavoro dei suoi studenti. La vicenda è ormai nota. In realtà essa è la naturale conseguenza di cosa sia diventata la scuola negli ultimi decenni.

Dovremmo prendere atto del progetto epocale che sta dietro lo scimmiottamento di un certo americanismo deteriore, con l’impianto, spesso accettato acriticamente, di   una pratica metodologico-didattica tesa esclusivamente a “preparare” menti atte solo a “seguire” docilmente i canoni del neoliberismo.

Ma, per fortuna, la scuola è stata e continua ad essere una delle poche ma più solide e sicure casematte di resistenza, in virtù dell’azione di moltissimi docenti – donne e uomini liberi – che hanno giurato idealmente sulla Costituzione e sui suoi valori fondanti.

E questo è il motivo per il quale la scuola è sotto attacco e, dalle funeste, ma apparentemente liberali, linee innovative, si sta passando ad atti radicalmente diversi: violenti, arroganti e, per tale motivo, estremamente pericolosi.

Ma la cosa che maggiormente colpisce è che certi atti decisamente illiberali  siano opera di persone che hanno studiato e, addirittura, insegnano, filosofia (come il titolare della macchina propagandistica di Salvini, che,  nel diffondere a piene mani fake news, contraddice la ragione stessa del suo lavoro intellettuale, ossia  la ricerca della verità), o dicono di coltivarla  con passione, come il dirigente dell’Ufficio scolastico di Palermo che, “agendo secondo coscienza” (sic!) ha inferto alla mia collega palermitana una ferita profondissima. Il problema è che della scuola s’interessa chi non vi ha mai messo piede o chi, da tempo, se n’è allontanato.

La scuola è l’oasi dove si costruisce insieme, docenti e alunne e alunni, libertà di giudizio, pensiero critico, dove si impara a guardare il mondo, e a praticare il dubbio, il più importante lascito della modernità.  Spinoza, il filosofo delle passioni spiegate con la geometria, declinò l’invito di insegnare all’Università, continuando a procacciarsi da vivere costruendo lenti, perché non gli apparivano abbastanza chiari i limiti della libertà di pensiero che l’istituzione diceva, sì, di assicurargli, a condizione, però, che non si toccasse la religione ufficiale.

L’avranno studiato, Spinoza, il filosofo al servizio di Salvini o il burocrate con la passione della filosofia?  Forse sì.  Probabilmente non l’hanno capito. O, e sarebbe anche peggio, l’avranno capito ma, la condizione di servi, in talune occasioni, si rivela più conveniente di quella governata dalla coerenza.

E, tuttavia, quei ragazzi di Palermo che, studiando la storia, hanno stabilito liberamente analogie e  colto, liberamente,  connessioni, ci autorizzano a pensare che non tutto è perduto. Così come la Pasqua, per chi crede, e la celebrazione della liberazione dal fascismo per le cittadine e i cittadini italiani che a quel giorno radioso fanno riferimento, sono due momenti, quest’anno congiunti casualmente dal calendario,  che ci spingono a non perdere la speranza.

La stessa speranza che Aldo Moro, nell’ultimo discorso pubblico, consigliava  ai gruppi parlamentari democristiani, quindici giorni prima di essere rapito dalle Brigate rosse:  “Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma, cari amici, non è possibile; oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità.

Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue difficoltà. Camminiamo insieme perché l’avvenire appartiene in larga misura ancora a noi.”  Nella nostra modesta fattispecie, non sarebbe  sbagliato e inutile se, per esempio,  a proposito delle vicende scolastiche, molti uscissero, finalmente, dal loro torpore dogmatico.

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